Calmiere.

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Dizionario di storia moderna e contemporanea

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CALMIERE

Imposizione del prezzo di vendita al dettaglio per generi di largo consumo, per lo più in periodi di guerra o di carestia, con lo scopo di evitare aumenti ingiustificati. La calmierazione dei prezzi, soprattutto del frumento o del pane, fu adottata negli stati di ancien régime con una certa frequenza, anche in periodi non eccezionali. L'intento era quello di mantenere bassi i prezzi alimentari e, di conseguenza, anche i salari. Il termine, che deriva dal greco bizantino kalamométrion (proprio della misura di una canna), designava anche il prezzo medio di mercato, utilizzato per determinare il peso del pane. Per estensione, quindi, venne a indicare il peso imposto al pane, o anche tutto il complesso di operazioni che portavano a stabilire la corrispondenza tra un dato prezzo del frumento e il peso del pane. In molti stati di ancien régime, infatti, era il peso l'elemento variabile di contro all'invarianza del prezzo.

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ANCIEN RÉGIME

(antico regime). Insieme degli istituti giuridici, politici e sociali contro i quali si rivolse la rivoluzione francese, quindi il governo e la società francesi nei cento anni che precedettero la rivoluzione: in senso più ampio, l'epoca della storia europea compresa tra il XVI e il XVIII secolo e, per alcuni paesi, anche oltre, fin quando non vi si affermarono istituzioni e forme sociali e politiche "moderne", in cui trionfarono i concetti di nazione, costituzione, sovranità popolare, eguaglianza, diritti dell'uomo e del cittadino. L'ancien régime caratterizzò la società francese con le istituzioni centrate sulla figura del sovrano, vertice e personificazione di una monarchia ereditaria di diritto divino (vedi assolutismo), con la struttura aristocratica (società di ordini) e con l'economia ancora prevalentemente legata alla terra e a forme produttive di tipo tradizionale. In particolare, esso era contraddistinto da un insieme di rapporti sociali e giuridici tali da configurare situazioni di privilegio e di diseguaglianza ereditarie e da consolidare le gerarchie esistenti. Fanno parte di questo contesto sia le vestigia del regime feudale (quali le servitù personali, la manomorta, il maggiorasco, i diritti signorili, le rendite feudali, le forme di giustizia signorile, istituti che furono formalmente distrutti dai decreti promulgati dall'Assemblea costituente il 4 agosto 1789), sia un sistema fiscale basato sul privilegio e sulle esenzioni a favore della nobiltà e del clero. Tipici dell'antico regime furono inoltre alcune pratiche amministrative come la venalità e l'ereditarietà di molti uffici finanziari e giudiziari e l'esistenza di privilegi a favore di particolari gruppi sociali: le corporazioni e le istituzioni accademiche nelle arti, nei mestieri e nella cultura, con l'insieme di vincoli, di regole, di franchigie e di norme da esse amministrate (all'abolizione di tutte le istituzioni che ostacolano la libertà e l'uguaglianza dei diritti era dedicato il preambolo della Costituzione approvata dall'Assemblea nazionale nel settembre 1791). In generale, l'antico regime fece sedimentare comportamenti sociali ed etici che spesso, soprattutto nelle campagne, sopravvissero anche dopo la caduta delle sue istituzioni e forme esteriori.

G. Abbattista

H. Méthivier, L'ancien régime, Presses Universitaires de France, Parigi 1961; P. Goubert, L'ancien régime. La société. Les pouvoirs, Armand Colin, Parigi 1973; W. Doyle, Europa del vecchio ordine, Laterza, Bari 1987; A. Soboul, La società francese nella seconda metà del Settecento, Giannini, Napoli 1971; L. Guerci, L'Europa del Settecento, Utet, Torino 1988.

ASSOLUTISMO

Forma di regime monarchico nella quale il potere è esercitato da un sovrano che si ritiene libero da controlli e condizionamenti da parte di istanze politiche e rappresentative superiori o inferiori.

STRUMENTO DELLO STATO MODERNO. Storicamente i regimi assolutistici si realizzarono soprattutto nell'Europa occidentale, tra il XVI e il XVIII secolo, in relazione al processo di costruzione dello "stato moderno". Dal punto di vista del pensiero politico (precedenti teorici si possono ravvisare in Dante, Marsilio da Padova, Bartolo da Sassoferrato, che rivendicarono l'autonomia dello stato di fronte ai poteri universalistici della Chiesa e dell'impero), l'assolutismo si strutturava attorno a un monarca "libero da vincoli legali" (legibus solutus, onde assolutismo), tale per grazia di Dio e suo rappresentante in terra. La sovranità, indivisibile e inalienabile, veniva esercitata sull'insieme dei sudditi ai quali non era permesso porre limiti all'autorità del re. La teoria della monarchia di diritto divino trovò il suo più autorevole rappresentante in Giacomo I Stuart, re di Scozia e d'Inghilterra, il quale affermò che il sovrano in quanto imago Dei non doveva rispondere a nessuno dei suoi atti se non a Dio (Basilikon Doron, 1599). Tuttavia, oltre che dalle leggi divine e naturali, il principe era legato da obblighi ben definiti. Egli doveva in primo luogo operare per il bene dei suoi sudditi secondo i dettami della giustizia e della religione e mirare alla conservazione delle loro "libertà" (Jean Bodin). Il principe veniva inoltre vincolato da una serie di leggi fondamentali e non scritte dello stato che non potevano essere da lui modificate in quanto tutelavano la continuità dello stato. In Francia quelle leggi regolavano la successione dinastica e le reggenze in caso di minorità del sovrano, imponevano l'inalienabilità del demanio regio e impegnavano il re a tutelare i privilegi delle popolazioni del paese. Quest'ultimo era però l'obbligo più difficile: la pienezza della sovranità si scontrava infatti spesso con una serie di ostacoli che traevano origine dalla resistenza dei particolarismi espressi dalle istituzioni rappresentative (stati generali, stati provinciali, parlamenti, cortes, diete, comuni, città libere ecc.). In ogni caso, il monarca si muoveva in un quadro di legalità e di certezze che allontanavano l'assolutismo dai paradigmi del dispotismo e della tirannide. Ulteriore legittimazione teorica all'assolutismo venne da Thomas Hobbes, che nel XVII secolo teorizzò una società regolata da un'autorità sovrana depositaria dell'unicità del potere. Ma ormai la monarchia assoluta in Inghilterra era conclusa.

LE SINGOLE NAZIONI EUROPEE. Il processo di sviluppo dell'assolutismo fu diverso da stato a stato anche per la differenza di impianto sociale ed economico sul quale i monarchi fondarono la loro azione. In Spagna l'unificazione del paese portò alla politica imperiale di Carlo V e di Filippo II, ma i tentativi di centralizzazione operati dai ministri di Filippo III e di Filippo IV suscitarono durante la guerra dei Trent'anni la riscossa dei particolarismi regionali. Ne conseguì un brusco arresto, almeno fino all'avvento della dinastia Borbone, dello sviluppo dell'assolutismo in terra iberica. In Inghilterra le dinastie Tudor e Stuart portarono il paese all'assolutismo grazie soprattutto alla centralizzazione amministrativa e giudiziaria che faceva perno sul Consiglio privato, sulla Camera stellata e sul consenso sociale ottenuto con la confisca e la distribuzione dei beni della Chiesa cattolica. Il ruolo del parlamento, a partire da Enrico VIII, venne progressivamente limitato, ma l'assolutismo di Giacomo I e di Carlo I provocò forti tensioni che sfociarono nella rivoluzione del 1640-1648, nella caduta della monarchia e, dopo la restaurazione della dinastia Stuart nel 1660, nella rivoluzione del 1688 che impose rigidi vincoli all'azione dei sovrani, avviando l'Inghilterra verso il costituzionalismo. Le vicende dell'assolutismo assumono, invece, in Francia i caratteri di paradigmaticità. A partire dal XVI secolo il controllo della minoranza ugonotta, l'istituzione dell'intendente, il ridimensionamento del potere delle grandi casate aristocratiche in provincia, la formazione di un apparato burocratico di estrazione borghese che traeva le sue origini dalla venalità degli uffici, la creazione di una corte regia, definirono subito i caratteri dello stato in cui la monarchia operava secondo i canoni più tipici dell'assolutismo. Luigi XIV, il "re sole", rappresentò per la Francia e per il resto dell'Europa la figura del monarca assoluto per antonomasia: soffuso di un'aura di sacralità, egli governava con la collaborazione di ministri completamente dipendenti dalla sua volontà avendo di mira la gloria e la ricchezza del proprio paese anche mediante una politica di espansione territoriale. Più tardo e più lento fu il processo di sviluppo dell'assolutismo nei piccoli stati dell'area italiana e di quella germanica. Il Piemonte sabaudo e la Prussia degli Hohenzollern furono i paesi che più di ogni altro conobbero la centralizzazione del potere, la riduzione delle prerogative dei ceti particolaristici, l'accrescimento del ruolo e delle funzioni degli apparati burocratici e militari. Nella Russia di Pietro il Grande e di Caterina l'assolutismo sconfinò nel dispotismo e come tale venne spesso percepito dall'opinione pubblica del tempo. Parzialmente diverso fu il caso dei possedimenti degli Asburgo d'Austria, ove la politica di rafforzamento delle istituzioni perseguita con tenacia a partire da Leopoldo I si scontrò con le prerogative degli "stati", con lo strapotere delle grandi famiglie aristocratiche, in particolar modo di quelle magiare e boeme, e con la natura composita degli stessi territori sui quali gli Asburgo esercitavano la loro sovranità. Il disciplinamento delle aristocrazie, alle quali furono concessi importanti incarichi negli eserciti e nelle istituzioni ecclesiastiche, lo spazio dato alla borghesia delle professioni attraverso la venalità degli uffici e la creazione di una rete burocratica, che tendeva ad avvolgere tutto il paese, furono il successo più notevole conseguito dalle monarchie assolute. La bufera suscitata dalla rivoluzione francese mise in discussione il carattere divino dell'assolutismo ma rese autonomi dalla figura del monarca quei principi di centralizzazione del potere che rimasero alla base degli stati nazionali contemporanei.

A. Spagnoletti

E. Molnar, Les fondaments économiques et sociaux de l'absolutisme, in "XII Congrès International des Sciences Historiques. Actes", Vienna 1965; S. Mastellone, Storia ideologica d'Europa da Savonarola a Adam Smith, Sansoni, Firenze 1979; P. Anderson, Lo stato assoluto, Mondadori, Milano 1980.

ORDINI, SOCIETÀ DI

Tipo di società nel quale le gerarchie tra i singoli individui e i gruppi sociali si determinano non in relazione al ruolo economico che essi svolgono ma in ragione della stima, dell'onore e della dignità attribuiti a funzioni che possono anche non avere alcun rapporto con la produzione. La società europea di ancien régime si divideva in tre grandi ordini: clero, nobiltà e Terzo stato, riecheggianti la vecchia partizione medievale tra coloro che pregano, coloro che combattono e coloro che lavorano, tutti a loro volta divisi in molteplici strati tra di loro gerarchizzati. Pur se una certa fissità sembrava caratterizzare i ruoli ricoperti all'interno degli ordini, non mancarono casi e pratiche di mobilità sociale. Adeguate strategie matrimoniali, la diffusione della venalità degli uffici e le carriere nelle istituzioni ecclesiastiche permisero, infatti, a numerosi esponenti del Terzo stato di entrare a far parte dei ceti privilegiati. Tuttavia dalla rappresentazione organicistica della società di antico regime venivano esclusi coloro che non erano inseriti in nessun ordine: mendicanti, emarginati, banditi e altri appartenenti a categorie non inquadrabili entro uno schema che si presentava carico di rigidità e preclusioni nei loro confronti. Alla società degli ordini corrispose in una certa misura, e fino a un periodo che per alcune regioni europee coprì e durò anche oltre il XIX secolo, lo stato dei ceti. Questo sistema sociale e politico, che predominò in Europa fra il XIII e il XVII secolo, era caratterizzato in particolare dall'esistenza di distinti centri di potere; il potere politico era solo uno di questi e di fronte a esso vi erano gruppi sociali con interessi e condizioni giuridiche e culturali comuni e con principi di organizzazione indipendenti. A differenza di quanto accadde poi nello stato moderno, non vi era una volontà pubblica e sovrana che si imponeva sugli interessi particolari, ma al contrario molte delle grandi decisioni legislative e amministrative e sempre quelle fiscali scaturivano da una contrattazione fra parti (il re e i ceti). Clero, piccola e grande nobiltà, borghesi erano presenti con i loro rappresentanti nelle assemblee (come gli Stati generali in Francia e le Cortes nelle monarchie iberiche), che costituivano, accanto e di fronte al monarca, un elemento essenziale del sistema costituzionale e nelle quali ciascun delegato era presente esclusivamente per proteggere gli interessi propri e del proprio ceto. Di fronte all'affermazione dello stato moderno, con i suoi principi di sovranità e assolutismo, i ceti e le assemblee di ceti persero via via di importanza, in Francia e in Castiglia fra il XVI e il XVIII secolo; mantennero invece una considerevole vitalità nell'Europa centrorientale, specialmente dove la monarchia era elettiva, ma i progressi dell'assolutismo nel XVII secolo li esautorarono anche in Prussia e nei possessi asburgici. Nel XVIII secolo i più intensi rapporti economici, la diffusione dell'illuminismo, l'ulteriore rafforzamento dell'assolutismo, portarono ad attribuire maggiore considerazione sociale agli individui più che ai ceti e favorirono l'articolarsi di una società basata sulle distinzioni di classe.

A. Spagnoletti

R. Mousnier, Le gerarchie sociali dal 1450 ai nostri giorni, Vita e pensiero, Milano 1971; P. Goubert, D. Roche, L'ancien régime, vol. I, Jaca Book, Milano 1985.

TRENT'ANNI, GUERRA DEI

(1618-1648). Conflitto che coinvolse l'Europa centrale. Combattuta soprattutto sul suolo tedesco e boemo, con eserciti ai quali era permesso il saccheggio, ebbe conseguenze fortemente negative per l'economia degli stati tedeschi provocando, tra l'altro, una forte caduta demografica. Le cause furono di ordine religioso, politico ed economico. La pace di Augusta del 1555 aveva lasciato insoluti molti problemi: la Controriforma stava creando gravi attriti. A ciò si aggiungeva la vecchia rivalità politica ed economica tra gli Asburgo e vari stati dell'impero. La monarchia francese inoltre, dopo un periodo di forti conflitti interni, aspirava a contrastare il ruolo egemonico degli Asburgo, mentre la Svezia era interessata a rafforzarsi sul Baltico. La guerra iniziò con la defenestrazione di Praga (23 maggio 1618), quando i rappresentanti del governo asburgico furono gettati dagli hussiti fuori dal palazzo dell'università. La successiva elezione a re di Boemia del protestante Federico V del Palatinato fece schierare gli stati europei in due campi: quelli favorevoli agli Asburgo (Spagna, Baviera, Sassonia, Polonia) e quelli che appoggiavano Federico (la maggior parte degli stati protestanti germanici, l'Inghilterra e l'Olanda). L'esercito asburgico sconfisse duramente i boemi nella battaglia della Montagna bianca (1620) e penetrò anche nel Palatinato. Cominciò così una dura repressione contro i protestanti, mentre la corona boema venne dichiarata eredità degli Asburgo. Frattanto la Spagna iniziò le ostilità contro le Province unite, e il re Cristiano IV di Danimarca, il re Gustavo Adolfo di Svezia e più tardi la Francia scendevano in campo contro l'Austria. La fine del conflitto (solo Francia e Spagna continuarono le ostilità tra di loro) fu sancita dalla pace di Westfalia, firmata nelle due località di Münster e Osnabrück (1648).

COSTITUZIONALISMO

Complesso dei principi e delle regole che contraddistinguono la forma di governo detta costituzionale, sorta come reazione allo stato assoluto e fondata su un insieme di norme stabili, scritte e contenute appunto in una costituzione. In senso lato il costituzionalismo fu identificato con la "tecnica della libertà", cioè con quella tecnica giuridica mediante la quale si garantisce ai cittadini l'esercizio dei loro diritti individuali e contemporaneamente si impedisce allo stato di poterli violare. Costituzionale è perciò quella forma di stato basata sulla divisione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), che si sostituì storicamente alla monarchia assoluta, nella quale tutto il potere era concentrato nelle mani del re. L'identificazione del costituzionalismo con il concetto della separazione dei poteri è la più comunemente diffusa e accettata. Ha i suoi presupposti ideologici nella tradizione britannica del XVII e XVIII secolo e nel pensiero di C. Montesquieu, nonché autorevoli precedenti nei principi ispiratori della rivoluzione inglese del 1688 e nelle costituzioni francesi, che all'articolo 16 recitava: «Ogni società nella quale non sia assicurata la garanzia dei diritti e determinata la separazione dei poteri non ha costituzione ». Col passare del tempo e col mutare delle situazioni sociali e politiche si formalizzarono comunque concezioni del costituzionalismo diverse da quelle imperniate sulla divisione dei poteri. Nella visione "garantista" teorizzata da B. Constant il costituzionalismo appare essenzialmente come l'esigenza di tutelare, sul piano costituzionale, i diritti fondamentali dell'individuo mediante la delimitazione di una sua sfera di autonomia preclusa all'intervento del potere statale. Il rispetto dei diritti dell'individuo è garantito, secondo Constant, dalla più completa libertà politica. Questa idea manca invece nel concetto di costituzionalismo contenuto nell'ideale tedesco di stato di diritto, nato nella Prussia del 1700 e perfezionato sul finire del XIX secolo. Secondo questa teoria il depositario della sovranità è lo stato (non il re e neppure il popolo) che persegue i suoi fini solo nelle forme e nei limiti del diritto. In questa interpretazione manca però quella feconda dialettica tra potere e individui che caratterizzò l'intera storia del costituzionalismo e che ricompare in alcune teorie successive che individuano nella limitazione del potere politico attraverso la legge (specialmente la legge fondamentale, cioè la costituzione) il tratto distintivo delle moderne democrazie costituzionali.

F. Conti

C.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1940), Neri Pozza, Venezia 1956; N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Utet, Torino 1976.

UGONOTTI

I protestanti francesi, di tendenza calvinista, nel contesto delle guerre di religione (XVI secolo). Nonostante le misure repressive poste in atto nella prima metà del Cinquecento, si diffusero in diverse province, a partire dalle città universitarie e dai centri commerciali, come La Rochelle e Lione. Erano gruppi di operai, mercanti e piccoli proprietari, spesso sostenuti dalle autorità cittadine. Alla Chiesa di Parigi (creata nel 1555) e a quelle fondate in seguito aderirono anche membri dell'alta borghesia e dell'aristocrazia. Con la morte di Enrico II (1559) e l'ascesa dei cattolici Guisa, nelle vicende degli ugonotti, guidati dai Borbone, si intrecciarono la lotta politico-dinastica e contrasti religiosi. Con la pace di Saint-Germain-en-Laye (1570) ottennero la libertà di culto e alcune città (places de sûreté) completamente autonome sotto il loro controllo. La strage dei capi ugonotti della notte di san Bartolomeo (1572) ne accelerò poi la trasformazione in partito politico e diede impulso alle dottrine della monarcomachia. Una relativa tolleranza caratterizzò il regno di Enrico IV di Borbone, che garantì, con l'editto di Nantes (1598), i diritti civili e il libero esercizio del culto, oltre al possesso di alcune fortezze. Ma la situazione peggiorò con la reggenza di Maria de' Medici e con Luigi XIII. Nel 1628-1629 Richelieu, con l'assedio di La Rochelle e l'inglobamento di tutte le places de sûreté, segnò la fine della loro potenza politica. Il distacco della grande nobiltà, le repressioni e le conseguenti emigrazioni li indebolirono, fino alla revoca dell'editto di Nantes (1685). Luigi XIV, teso a riaffermare il gallicanesimo, colpì gli ugonotti con una serie di gravi misure, ricorrendo anche alle dragonnades (obbligo di alloggiare i dragoni) e alle conversioni forzate. Ne seguì un vero esodo, soprattutto verso l'Olanda e l'Inghilterra, che arricchì questi paesi di artigiani e professionisti di valore e fece tornare la Francia un paese esclusivamente cattolico. L'editto del 1787 garantì ai protestanti residui l'esercizio dei diritti civili che la rivoluzione estese paritariamente a tutte le confessioni religiose.

INTENDENTE

(XVII-XVIII secolo). Funzionario che in Francia rappresentava il re in ogni generalità. Strumento dell'accentramento monarchico, le sue competenze si estendevano all'ordine pubblico, alla giustizia e alle finanze locali. Con lo stesso termine vennero indicati i funzionari che, a partire dal 1806, furono messi a capo delle amministrazioni provinciali nel regno di Napoli e quindi nel regno delle Due Sicilie.

UFFICI, VENALITÀ DEGLI

Attribuzione delle massime cariche pubbliche dietro pagamento nelle burocrazie di ancien régime. Fu particolarmente rilevante in Francia, dove nel 1483 fu autorizzata la vendita delle cariche finanziarie e nel 1522 di quelle giudiziarie, con diritto a commerciarle e trasmetterle. Nel 1604 fu imposta su tutti gli uffici la tassa detta Paulette (1/60 annuo del valore d'acquisto e 1/8 in caso di trasmissione), che sanciva la loro patrimonializzazione ereditaria. La creazione di uffici venali fu l'espediente usuale della tesoreria reale francese: fra il 1515 e il 1665, essi passarono da più di 4.000 a più di 46.000, determinando l'inquadramento amministrativo del regno ma anche l'indipendenza dei funzionari, che non potevano essere deposti se non col rimborso; per esercitare il controllo sovrano fu perciò istituito il sistema dei commissari e degli intendenti. Il valore degli uffici crebbe continuamente fra XVI e XVII secolo, non tanto per le rendite connesse, assai incerte, ma perché rappresentavano la via per accedere alla nobiltà di toga; calò nel XVIII secolo per l'affermazione del potere dei commissari e per l'inflazione di cariche inutili, quali quella di segretario del re, fattori che già avevano provocato lo scontento dei funzionari espresso nella fronda parlamentare.

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RIVOLUZIONE FRANCESE

(1789-1799). Movimento politico e sociale che pose fine all'ancien régime in Francia.

LE CAUSE. Ebbe origine da processi di medio-lungo periodo e da fattori di crisi congiunturale che investirono l'economia e la società, la politica e la cultura, le istituzioni e la mentalità. La fase di prosperità apertasi negli anni venti del XVIII secolo aveva favorito lo sviluppo di una borghesia imprenditoriale urbana e rurale insofferente ai vincoli feudali e corporativi e a una borghesia intellettuale e delle professioni decisa a far prevalere i meriti individuali sui privilegi di ceto. Con gli esponenti più illuminati del clero e della nobiltà, questa borghesia si proponeva come nuova classe dirigente, capace di rappresentare gli interessi di tutta la nazione (vedi Sieyès). Ma la crescita settecentesca, peraltro già arrestatasi negli anni settanta, provocò effetti socialmente differenziati e contraddittori, penalizzando i gruppi sociali più numerosi e più poveri. Nella seconda metà degli anni ottanta, poi, una grave crisi produttiva e di mercato colpì settori cruciali come la viticoltura e le manifatture tessili, rendendo esplosiva la crisi di sussistenza seguita al pessimo raccolto cerealicolo del 1788. Nelle campagne l'aumento di lungo periodo della rendita feudale e fondiaria aveva aggravato le croniche difficoltà della piccola azienda contadina e alimentava una diffusa resistenza tanto al prelievo signorile quanto alle spinte verso il liberismo economico e lo sviluppo capitalistico cui erano, invece, sensibili grandi affittuari e proprietari fondiari. Intanto la crisi cronica della finanza statale, aggravata dagli sprechi e dai costi della guerra contro la Gran Bretagna (1778-1783), imponeva misure di perequazione fiscale, cui si opponevano gli ordini privilegiati, che acuivano la tradizionale opposizione dei parlamenti all'assolutismo regio. Al "dispotismo ministeriale" si opponevano anche i fautori della monarchia costituzionale di tipo inglese, guidati dal marchese di La Fayette. Infine la diffusione delle idee illuministiche metteva in crisi, presso vasti strati di opinione pubblica colta, l'ideologia dell'assolutismo e la legittimità delle distinzioni di ceto fondate sul privilegio di nascita o di status. Una fitta rete di accademie, "società di pensiero" e logge massoniche alimentava forme inedite di sociabilità politica e culturale che, saldandosi con una crescente alfabetizzazione dei ceti popolari e una diffusa secolarizzazione di valori e comportamenti, agevolava la diffusione di idee-forza potenzialmente destabilizzanti quali l'uguaglianza dei diritti e la sovranità popolare.

GLI STATI GENERALI E LA COSTITUENTE. Il fallimento dei progetti di riforma di J. Necker, di C.A. de Calonne e di E. C. Loménie de Brienne rese inevitabile nell'estate 1788 la convocazione degli Stati generali. La consultazione che ne preparò l'elezione coincise (marzo-aprile 1789) con un'acutissima crisi di sussistenza che rese incandescente lo scontro politico sulla composizione e sui poteri degli Stati generali; la compilazione di circa 60.000 cahiers de doléances fu un'occasione straordinaria di mobilitazione politica di massa. Fin dall'apertura degli Stati generali (5 maggio 1789) una netta frattura si produsse tra il re e i primi due ordini da un lato e, dall'altro, i rappresentanti del Terzo stato su questioni procedurali di grande rilievo politico come la vexata quaestio del voto per testa o per ordine. Attraverso passaggi drammatici (tra cui il giuramento, pronunciato nella sala della Pallacorda, di non separarsi finché la Francia non avesse avuto una costituzione), i deputati del Terzo stato, appoggiati da un'intensa campagna di stampa e da una parte dei deputati degli altri due ordini, si costituivano in Assemblea nazionale, che il 9 luglio si proclamò costituente. La minaccia regia di sciogliere con la forza l'Assemblea e il timore del complotto aristocratico spinsero il popolo di Parigi all'insurrezione armata come strumento di difesa preventiva (assalto alla Bastiglia, 13-14 luglio 1789). Tra la metà di luglio e i primi giorni di agosto in tutta la Francia dilagò la "rivoluzione municipale" e le campagne furono sconvolte dalla Grande paura, che spinse la costituente a proclamare l'abolizione della feudalità (4 agosto). Il 26 agosto, con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino [Costituzione francese], l'Assemblea fondava solennemente i nuovi ordinamenti su principi che sarebbero stati alla base delle moderne costituzioni liberali e democratiche. Fino all'estate del 1791 preoccupazioni dominanti dell'Assemblea furono l'elaborazione di una nuova costituzione, la riforma delle amministrazioni locali (istituzione dei dipartimenti, cantoni e comuni retti da organi di governo elettivi) e giudiziaria, il risanamento finanziario. La crescita esponenziale del disavanzo pubblico spinse i costituenti a confiscare e mettere in vendita i beni della Chiesa per rimborsare titoli di debito pubblico emessi in quantità crescente e che rapidamente si svalutarono. La Costituzione civile del clero (12 luglio 1790), condannata dal papa, provocò una grave frattura tra il clero "costituzionale" e quello "refrattario", che rafforzò il fronte controrivoluzionario. Intanto nelle campagne i contadini si rifiutavano di pagare i diritti signorili sulle terre o di riscattarli; l'incapacità del governo e dell'Assemblea di tutelare gli interessi dei nobili spingeva questi ultimi a schierarsi sempre più numerosi contro la rivoluzione, e spesso a emigrare all'estero. La fuga di Varennes (20 giugno 1791) svelò definitivamente i propositi controrivoluzionari del re e della corte e provocò una dura contrapposizione fra quanti tentavano di negarne le responsabilità, per non compromettere una soluzione monarchico-costituzionale della crisi, e i rivoluzionari più radicali. L'eccidio di Campo di Marte (17 luglio 1791), la secessione dei foglianti dal club dei giacobini, la dichiarazione di Pillnitz (con cui nell'agosto 1791 Austria e Prussia invitavano i monarchi d'Europa a unirsi per ristabilire l'ordine in Francia) accentuarono incertezze e tensioni che il varo della prima Costituzione francese (4 settembre) non bastò a placare. Nell'Assemblea legislativa, che sostituì (1° ottobre 1791) la costituente, pur prevalendo numericamente la destra fogliante (un terzo dei deputati) e il centro moderato, dominarono la scena i girondini, guidati da J.P. Brissot, che fecero leva sull'intransigente difesa della rivoluzione contro i nemici esterni e interni. Con lo strumentale appoggio del re e della corte e l'opposizione di Robespierre, ostile a un conflitto di esito incerto per la Francia, i girondini trascinarono l'Assemblea a dichiarare guerra all'Austria (20 aprile 1792).

LA PRIMA REPUBBLICA E IL TERRORE. Ma gli insuccessi militari, la sensazione diffusa che un nuovo "complotto aristocratico" mirasse a stroncare la rivoluzione con l'appoggio degli eserciti stranieri e una violenta ripresa delle sommosse popolari contro il carovita mobilitarono nuovamente i sanculotti, che il 10 agosto sostituirono la municipalità di Parigi con una Comune insurrezionale e costrinsero la Legislativa a votare la deposizione del re e a convocare nuove elezioni, a suffragio universale. La nuova assemblea (vedi Convenzione nazionale), insediatasi lo stesso giorno (21 settembre) in cui un esercito di volontari fermò a Valmy l'avanzata austro-prussiana su Parigi, il 21 settembre proclamò la repubblica una e indivisibile. Sui rapporti con il movimento sanculotto e le sue istanze di democrazia diretta e di radicalismo sociale (maximum dei prezzi, diritto al lavoro e all'istruzione ecc.), sulla conduzione della guerra e sulla sorte del re si aprì nella Convenzione un aspro e lungo scontro politico fra i girondini e i deputati montagnardi, i cui principali leader (Robespierre e Danton) rivendicarono e ottennero, con l'appoggio di una parte dei deputati di centro (Palude), la condanna a morte, senza possibilità di appello al popolo, e l'esecuzione del re (21 gennaio 1793). Il regicidio e l'annessione alla Francia dei territori alla sinistra del Reno, del Belgio e della Savoia portarono alla guerra contro la prima coalizione (Austria, Prussia, Gran Bretagna, Paesi bassi, Spagna e quasi tutti gli stati italiani). Una serie di sconfitte militari e lo scoppio della rivolta in Vandea e in altri dipartimenti dell'Ovest spinsero a adottare misure eccezionali (istituzione del Tribunale rivoluzionario, del Comitato di salute pubblica e di comitati di sorveglianza rivoluzionaria in tutti i comuni) che indebolirono i girondini. Nelle "giornate rivoluzionarie" del 31 maggio e del 2 giugno 1793 i sanculotti parigini, sostenitori dei montagnardi, imposero l'epurazione dei principali leader girondini dal governo e dalla Convenzione. Tra la capitale e i dipartimenti del Mezzogiorno e dell'Ovest, insofferenti dell'egemonia di Parigi e del radicalismo politico delle sue folle rivoluzionarie, si creò una frattura che sfociò in una vasta sollevazione antigiacobina ("insurrezione federalista"). Sotto la direzione dei giacobini, la Convenzione recuperò temporaneamente il controllo del movimento sanculotto accettandone in parte le rivendicazioni nella Costituzione dell'anno I (25 giugno 1793). L'accentramento del potere nelle mani del Comitato di salute pubblica e dei "rappresentanti in missione", protagonisti di una spietata repressione contro i federalisti e i rivoltosi vandeani; le misure da economia di guerra tendenti ad approvvigionare le città affamate e un poderoso esercito di oltre 700.000 uomini, ma che irritavano contadini e mercanti senza bloccare il mercato nero; l'imposizione del maximum generale dei prezzi e dei salari, che faceva emergere gravi divergenze anche nel movimento sanculotto; un'intransigente campagna di scristianizzazione, che lacerò ulteriormente le coscienze alimentando la resistenza controrivoluzionaria; la tendenza del Terrore a perpetuarsi oltre l'emergenza che ne aveva giustificato la nascita e a trasformarsi in strumento di lotta politica interna allo schieramento rivoluzionario (arresto ed esecuzione di J.R. Hebert e Danton e di molti loro seguaci, marzo-aprile 1794): questi e altri fattori erosero progressivamente il consenso intorno al Comitato di salute pubblica e al triumvirato (Robespierre, Saint-Just e G.A. Couthon) che sembrava dominarlo. Una composita coalizione di deputati che se ne sentivano colpiti o minacciati provocò l'arresto e l'esecuzione di Robespierre e dei suoi seguaci il 9-10 termidoro (27-28 luglio) 1794.

LA NORMALIZZAZIONE. La svolta di termidoro avviò un rapido processo di "normalizzazione" politico-istituzionale. Riammessi alla Convenzione i deputati girondini superstiti, in tutta la Francia giacobini e sanculotti diventarono oggetto di persecuzione (Terrore bianco). Il disorientamento e la debolezza del movimento popolare parigino si rivelarono appieno nel fallimento dei tentativi insurrezionali di germinale e di pratile anno III (1° aprile e 20-22 maggio 1795), provocati dall'esasperazione per il carovita, giunto a livelli insostenibili dopo l'abolizione del calmiere sui prezzi (dicembre 1794). La Costituzione dell'anno III (22 agosto 1795) sanzionò il nuovo corso politico e sociale della rivoluzione. Stabilendo una rigida divisione dei poteri (l'esecutivo al Direttorio e il legislativo a due Consigli, degli Anziani e dei Cinquecento, rinnovabili ogni anno per un terzo) e ripristinando il suffragio elettorale con sbarramento censitario e a doppio grado, proponeva un modello costituzionale cui si sarebbero ispirati nell'Ottocento ideologie e movimenti politici interessati a conciliare libertà civili, partecipazione politica e predominio delle classi abbienti, della borghesia intellettuale e delle professioni. L'evoluzione in senso filomonarchico dell'opinione pubblica, soprattutto delle campagne, e i sussulti insurrezionali della sinistra, sempre più deboli ed elitari, ma che ossessionavano l'immaginario collettivo dei termidoriani (vedi congiura degli eguali), crearono uno stato di permanente instabilità politica che il Direttorio fronteggiò a fatica con repressioni e colpi di stato, come quello di fruttidoro (4 settembre 1797), al cui successo contribuì in modo decisivo l'esercito, istituzione dal crescente prestigio e di sicura fede repubblicana. Un generale vittorioso, Napoleone Bonaparte, fu il protagonista e principale beneficiario del colpo di stato del diciotto brumaio (9 novembre 1799), che segnò il passaggio al Consolato e, poi, all'impero.

A. Massafra

A. Soboul, La rivoluzione francese, Laterza, Bari 1964; F. Furet, D. Richet, La rivoluzione francese, Laterza, Bari 1974; F. Furet, M. Ozout, Dizionario critico della rivoluzione francese, Bompiani, Milano 1988; M. Vovelle, La rivoluzione francese (1789-1799), Guerini, Milano 1993; M. Vovelle, L'état de la France pendant la Révolution (1789-1799), La Découverte, Parigi 1989.

AUGUSTA, PACE DI

(25 settembre 1555). Legge imperiale (Reichsabschied) promulgata dalla dieta imperiale di Augusta, che sancì la libertà confessionale dei principi tedeschi per garantire la pace interna e la concordia religiosa dopo l'indebolimento dell'autorità imperiale in seguito alla guerra dei principi. Il compromesso raggiunto tra il re di Boemia Ferdinando e i ceti imperiali riconobbe la confessione di Augusta. Secondo il successivo principio cuius regio, eius religio, soltanto i ceti imperiali laici ottennero la libertà religiosa, mentre i loro sudditi di altre religioni avevano solo il diritto di emigrazione. Il Reservatum ecclesiasticum, incluso da Ferdinando nell'accordo contro la volontà dei protestanti, stabiliva la perdita dell'ufficio da parte dei principi ecclesiastici che cambiassero religione. La Declaratio Ferdinandei, non inclusa nella pace, garantiva la libertà religiosa a nobiltà e città dei territori ecclesiastici. La pace proteggeva, infine, i diritti delle minoranze religiose, che erano soprattutto cattoliche, nelle città imperiali. La pace di Augusta escluse l'imperatore dagli affari religiosi dell'impero e rafforzò i ceti imperiali, che acquistarono l'autorità religiosa sui propri territori.

CONTRORIFORMA

L'insieme, vasto e articolato, di movimenti, istituzioni e iniziative posti in atto dalla Chiesa cattolica apostolica romana dalla metà del XVI secolo per arginare la diffusione della Riforma protestante, ricuperare i territori europei sottratti al suo controllo, consolidare l'egemonia sulle aree rimaste cattoliche.

LA RIFORMA CATTOLICA. Il concetto è tuttora oggetto di discussione poiché il processo di reazione al protestantesimo fu accompagnato da un moto di risanamento morale e disciplinare interno della Chiesa (Riforma cattolica), con premesse risalenti al periodo precedente lo scisma luterano e uno sviluppo alimentato anche dall'aspirazione della Chiesa stessa a una purificazione da abusi e corruzione. In effetti i fermenti di rinnovamento, già emersi impetuosamente con G. Savonarola, si manifestarono nel Cinquecento con iniziative quali l'Oratorio del divino amore, volto alla santificazione individuale e alle opere caritative, e la fondazione di nuovi ordini religiosi (teatini, 1524; somaschi, 1528; barnabiti, 1530; fatebenefratelli, 1540). Inoltre nella prima fase del pontificato di Paolo III (1534-1549) giunse ai vertici della Chiesa un gruppo di uomini di formazione erasmiana (vedi Erasmo da Rotterdam), quali Gaspare Contarini, Reginald Pole, Jacopo Sadoleto, portati più alla tolleranza che all'intransigenza. Queste aperture non furono tuttavia sufficienti ad avviare una rigenerazione profonda. Agli inizi del quarto decennio del secolo, mentre fallivano i colloqui di Ratisbona (1541), la gerarchia della Chiesa pose fine alle iniziative, timide ed elitarie, di quanti avevano sperato nel rinnovamento, in una prospettiva di dialogo e di riconciliazione con i protestanti. L'approvazione, da parte di Paolo III, del nuovo ordine dei gesuiti (1540) e l'istituzione della cosiddetta Inquisizione romana (1542) furono le prime manifestazioni, diverse ma egualmente significative, della Controriforma. La potente congregazione del Sant'uffizio, diretta da sei cardinali inquisitori e presieduta dallo stesso pontefice, divenne il centro di una vasta rete di tribunali locali, con facoltà di avviare processi anche indipendentemente dall'autorità vescovile. I gesuiti si posero al servizio di Dio e del suo vicario in terra come predicatori, missionari e insegnanti; per la loro preparazione come direttori spirituali e come educatori (soprattutto verso le classi dirigenti) e il loro attivismo politico divennero presto la forza di punta del cattolicesimo. Quando, nel 1545, fu convocato il concilio di Trento, le ultime speranze di una ricomposizione dell'unità dei cristiani si erano dissolte. Carlo V si era ormai convinto che l'unica via possibile fosse quella di una vittoria definitiva sui principi protestanti, della loro sottomissione forzata alle decisioni del concilio. L'aspetto dottrinale fu quindi affrontato confermando, contro le critiche dei riformati, i dogmi, i sacramenti e la loro efficacia ex opere operato (per il solo fatto di essere amministrati, indipendentemente dallo stato di grazia di chi li dispensa), il valore delle opere, il Purgatorio, l'invocazione e la venerazione dei santi, il culto delle reliquie e delle immagini, la pratica indulgenziale. Per quanto riguarda il rinnovamento della Chiesa venne sancito l'obbligo della residenza per i vescovi e i sacerdoti in cura d'anime, il divieto di cumulare benefici curati, la necessità di una vita modesta e di costumi integri per tutto il clero. Si pose ogni cura nella distinzione tra i sacerdoti e il popolo dei fedeli, ribadendo che non era lecito a quest'ultimo discutere e giudicare su questioni di fede (la Riforma aveva al contrario posto in discussione questa gerarchia con la dottrina del sacerdozio universale). Si stabilirono a tutti i livelli della gerarchia ecclesiastica forme precise di sorveglianza (controllo di Roma sui vescovi, dei vescovi sul clero secolare e sui monasteri, clausura per i monasteri femminili, visite annue agli istituti ecclesiastici e ai luoghi pii della diocesi).

PROMOZIONE DELLA DEVOZIONE POPOLARE E REPRESSIONE DELL'ETERODOSSIA. Al termine del concilio vennero imposti a tutta la Chiesa la Confessio fidei tridentinae e il Catechismo romano, mentre un'apposita congregazione cardinalizia per l'uniforme applicazione dei decreti fu istituita da Pio IV (1564). Ma soprattutto l'opera di vescovi zelanti (quali Carlo Borromeo e Alessandro Sauli, il cardinale Paleotti e altri) influì concretamente sui costumi del clero e sulla vita dei laici, attraverso misure quali l'imposizione dell'osservanza delle feste, la fondazione di nuove confraternite e il diretto controllo di quelle già esistenti, la condanna di meretrici, bestemmiatori e commedianti, la soppressione delle credenze popolari (che ebbe il suo aspetto più drammatico nella caccia alle streghe). Attraverso la predicazione, l'arte sacra, la liturgia, le processioni, gli esempi di santità, la ripresa della mistica e dell'ascetica (con Teresa d'Avila, Giovanni della Croce, Francesco di Sales) si inculcarono le verità della fede, sollecitando la partecipazione e l'imitazione da parte di tutti gli strati sociali. Si cercò nel contempo di cancellare le manifestazioni "eccessive" della pietà popolare, per incanalarla verso forme ortodosse e disciplinari (culto eucaristico, devozioni a Cristo, alla Madonna, ai santi). L'obbligo della confessione auricolare contribuì in modo rilevante a un controllo capillare sui comportamenti dei fedeli. Nei due campi contrapposti, cattolico e protestante, l'irrigidirsi delle frontiere confessionali generò atteggiamenti simili: puntualizzazione dottrinale, intolleranza verso gli incerti e i dissidenti, impedimenti alla circolazione delle idee, proselitismo e propaganda. Sul piano teologico, che vide fiorire una vasta produzione controversista, il gesuita Roberto Bellarmino fu il campione della Controriforma: con le sue Disputationes (1586-1593) intese ribattere, punto per punto, tutte le affermazioni dei riformati. Nel contempo una nuova congregazione cardinalizia (1571) ebbe il compito di aggiornare continuamente l'Indice dei libri proibiti (introdotto da Paolo IV nel 1559), sulla base del quale le opere "eterodosse" venivano sequestrate e bruciate. Anche il settore dell'istruzione popolare ricevette un forte impulso dal clima di lotta confessionale: al fianco della Compagnia di Gesù operarono gli scolopi di Giuseppe Calasanzio, la Congregazione dei preti dell'oratorio di Filippo Neri, le scuole della dottrina cristiana, le orsoline di Angela Merici. Il potere secolare trasse indubbi vantaggi dalla pedagogia della Controriforma, che insegnava la sottomissione all'autorità, il dovere di obbedienza, l'accettazione di buon grado della fatica quotidiana. Non per questo cessarono i ricorrenti contrasti giurisdizionali tra Chiesa e potere politico, che anzi produssero momenti di grande tensione all'interno dell'area cattolica: basti ricordare lo scontro tra Carlo Borromeo e il governo milanese, o la "guerra delle scritture" tra la curia romana e Venezia, che si affidò a Paolo Sarpi per sostenere le proprie ragioni. Certamente l'egemonia spagnola nel Mediterraneo portò un sostegno decisivo all'imposizione dell'uniformità cattolica in Italia e nella penisola iberica. Dal punto di vista militare fu la Germania il principale terreno di lotta, dalla fondazione della Lega di Smalcalda (1531) fino alla pace di Westfalia (1648), che sancì il riconoscimento dei diritti dei principi protestanti e sancirono la divisione religiosa del territorio. La Boemia fu ricondotta al cattolicesimo soffocando la presenza hussita e protestante; in Polonia la restaurazione avvenne sotto il regno di Stefano Bathory (1575-1586) con il contributo fondamentale dei gesuiti. In Francia, con il passaggio al cattolicesimo di Enrico di Borbone, le guerre di religione ebbero termine e si giunse alla convivenza (editto di Nantes, 1598). Sullo scorcio del Cinquecento il pericolo di infiltrazioni ereticali in Italia e nel mondo iberico era ormai sventato; non per questo cessarono di operare gli organismi di controllo e di repressione messi a punto nei decenni precedenti. Si volsero anzi all'interno, a colpire ogni atteggiamento non conformista e ogni manifestazione di pensiero filosofico e scientifico che fosse avvertito come una minaccia per l'autorità della Chiesa (condanna al rogo di Giordano Bruno, 1600; processo contro Galileo Galilei, 1633). Intorno alla metà del Seicento si era ormai chiusa la fase militare della Controriforma e la Santa sede aveva già perso il suo ruolo centrale nella politica europea, mentre allargava la sua influenza nelle Americhe e in Asia attraverso le missioni. Sul finire del secolo la circolazione delle idee e lo sviluppo delle conoscenze iniziavano a incrinare il suo controllo sul mondo intellettuale. Ma il processo messo in moto dalla Controriforma continuò per lungo tempo a produrre effetti sulla società, soprattutto sui comportamenti e la mentalità delle popolazioni cattoliche delle campagne, appena sfiorate dai ritmi della politica e del progresso.

G. Signorotto

H. Jedin, Riforma cattolica o controriforma?, Marcelliana, Brescia 1957; J. Delumeau, Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo, Mursia, Milano 1976.

WESTFALIA, PACE DI

(24 ottobre 1648). Trattato che concluse la guerra dei Trent'anni, unificando il trattato di Münster (1648), tra l'imperatore e la Francia con i suoi alleati, e quello di Osnabrück (1648) tra l'imperatore e la Svezia con i suoi alleati. La Francia ottenne i vescovati di Metz, Toul e Verdun, l'Alsazia e le fortezze di Breisach e di Pinerolo. La Svezia ebbe la Pomerania anteriore, Wismar e i vescovati di Brema e Werden nell'impero. Il Brandeburgo ebbe la Pomerania ulteriore e i vescovati di Halberstadt e Minden. La Baviera ebbe il Palatinato superiore con il titolo elettorale, mentre fu attribuito un altro titolo elettorale al Palatinato inferiore (facendo così salire i principi elettori a otto). Il trattato aveva il valore di una costituzione del Sacro romano impero germanico, garantita dal diritto pubblico europeo. Essa bloccò ogni tentativo di governo monarchico dell'impero e attribuì ai ceti imperiali il diritto di alleanza e la quasi sovranità interna (Landeshoheit). Dal punto di vista religioso furono riconosciute le paci di Passau (1552) e Augusta (1555), estese ai calvinisti, con la conferma del principio cuius regio eius religio. La distribuzione delle proprietà ecclesiastiche e delle confessioni fu congelata nella situazione del 1624.

COSTITUZIONI FRANCESI

(1791-1814). Costituzioni varate e abrogate in stretta successione in sintonia con gli eventi tumultuosi della rivoluzione, dell'età napoleonica e della restaurazione. Ciascuna di esse costituì un modello di assetto dello stato ispirato a concezioni ideologico-politiche ben distinte. Nel 1791 fu varata la prima costituzione scritta della Francia. Sanciva solennemente i principi ispiratori dei provvedimenti legislativi emanati dal 1789 in poi, sotto l'incalzare degli eventi rivoluzionari. Nel preambolo riportava la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino votata dall'Assemblea costituente il 26 agosto 1789. In essa, oltre a rivendicare i diritti naturali dell'individuo (diritto alla libertà personale, di pensiero, di opinione, d'espressione; alla proprietà; alla resistenza all'oppressione) e l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, si affermava il principio della sovranità nazionale e si definiva la legge come espressione della volontà generale. La costituzione conservava l'ordinamento monarchico del paese, ma limitava le prerogative del re dei francesi e subordinava alla legge il suo volere. Attribuiva al sovrano il potere esecutivo e il diritto di veto sospensivo nonché la facoltà di nominare e revocare i ministri, i capi militari, gli ambasciatori e i principali amministratori. Demandava il potere legislativo a un corpo permanente, composto da una sola camera, eletta a suffragio censitario a doppio grado. Stabiliva che i giudici, designati dal popolo, esercitassero le loro funzioni sotto la sorveglianza di un tribunale di cassazione. Fissava inoltre il nuovo assetto territoriale del paese che sostituiva alle circoscrizioni dell'ancien régime dipartimenti, distretti, cantoni e municipi. Ben più avanzata sul terreno politico e sociale fu la Costituzione dell'anno primo (1793). Voluta dai montagnardi al potere, fu adottata per acclamazione dalla Convenzione e approvata, come la successiva costituzione del 1795, da un referendum popolare. Pur non essendo mai entrata in vigore a causa dell'emergenza imposta dalla guerra contro la prima coalizione, divenne punto di riferimento per il pensiero democratico del secolo successivo. Nella preliminare Dichiarazione dei diritti si affermavano nuovi principi quali la fraternità tra i popoli e il diritto dei singoli al lavoro, all'istruzione, all'assistenza, alla felicità, all'insurrezione. Sfavorevole alle prerogative del potere esecutivo (esercitato da un Consiglio di ventiquattro membri) di cui limitava pesantemente le competenze, privilegiava il corpo legislativo composto da una sola Camera, i cui membri erano eletti annualmente a suffragio universale. I cittadini potevano intervenire direttamente nell'attività legislativa attraverso referendum richiesti da almeno un decimo degli elettori delle assemblee primarie in metà dei dipartimenti. Assai più moderata fu la Costituzione dell'anno terzo (1795) che rifletteva la preoccupazione di contenere gli eccessi della precedente e di consolidare la preminenza della borghesia. Nella Dichiarazione introduttiva si rifaceva largamente al testo del 1791 ma, per reazione alla dittatura montagnarda, specificava che nessun individuo o gruppo di cittadini poteva ritenersi depositario della sovranità. Per la prima volta menzionava, oltre i diritti dell'uomo, anche i doveri che consistevano essenzialmente nell'obbligo di rispettare la legge e le autorità costituite. Sanciva la separazione dei poteri, delegando quello esecutivo a un Direttorio composto di cinque membri e quello legislativo a due assemblee elette a suffragio censitario e indiretto: il Consiglio dei cinquecento, che proponeva ed elaborava le leggi, e quello degli anziani, che le varava o respingeva. Conservava nelle sue grandi linee l'organizzazione amministrativa del territorio nazionale, mantenendo la suddivisione in dipartimenti, cantoni e comuni, ma sopprimendo i distretti. Le costituzioni del periodo napoleonico gradualmente segnarono il riflusso delle idee rivoluzionarie e l'approdo a un nuovo dispotismo. La Costituzione dell'anno ottavo (1799), la prima che non si aprisse con una dichiarazione dei diritti, affidava il governo del paese a tre consoli, il primo dei quali godeva di ampie prerogative e, oltre a promulgare le leggi, nominava i ministri, gran parte dei funzionari civili e militari e i componenti del Consiglio di stato. Quest'ultimo organo redigeva le leggi che erano discusse dai membri del Tribunato e votate dal Corpo legislativo. Il suffragio universale era ristabilito; perdeva tuttavia significato, poiché i cittadini non eleggevano i propri rappresentanti, ma alcuni notabili tra i quali il Senato designava i componenti delle assemblee legislative. I senatori, inamovibili e cooptati su liste presentate dal primo console, avevano il ruolo di custodi della costituzione. Essi, però, non adottarono mai linee di condotta autonome e tramite successivi "senatoconsulti" si prestarono a indebolire i corpi legislativi e a rafforzare la posizione del primo console (Napoleone), che venne proclamato console a vita nel 1802 e imperatore nel 1804. Con la restaurazione borbonica (1814) una nuova carta costituzionale venne concessa ai francesi per grazia del sovrano (vedi costituzione octroyée) senza che fosse deliberata da un'Assemblea costituente come le precedenti. Pur ribadendo la teoria della sovranità per diritto divino, non sconfessava alcune importanti conquiste politiche e sociali della rivoluzione quali l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'abolizione dei privilegi fiscali, la libertà di pensiero, di espressione, di religione. Riservava al re non solo il potere esecutivo, ma anche l'esclusivo diritto dell'iniziativa legislativa nonché la facoltà di emettere regolamenti e ordinanze per l'esecuzione delle leggi. Introduceva, inoltre, un sistema bicamerale composto da una Camera dei pari, di nomina regia, e da una dei deputati, eletti a suffragio assai ristretto. Garantiva una certa indipendenza della magistratura, poiché i giudici, pur essendo nominati dal re, erano inamovibili. La carta costituzionale del 1814 tracciò le linee secondo cui si resse lo stato francese fino alla rivoluzione del 1848.

E. Papagna

J. Godechot, Les institutions de la France sous la Révolution et l'Empire, Puf, Parigi 1968; A. Saitta, Costituenti e costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale (1789-1875), Giuffré, Milano 1975.

CONSTANT DE REBECQUE, BENJAMIN

(Losanna 1767 - Parigi 1830). Scrittore e politico francese. Fu uno dei principali teorici del liberalismo costituzionale. Costretto all'esilio nel 1803 per le critiche mosse a Napoleone, si riavvicinò all'imperatore durante i Cento giorni. Celebre anche per alcune opere letterarie (Adolphe, romanzo psicologico), dopo la rivoluzione del 1830 fu nominato da Luigi Filippo presidente del Consiglio di stato.

STATO DI DIRITTO

Organismo politico che fonda la sua legittimità non sul potere arbitrario del sovrano, ma su una costituzione, che tutela i diritti fondamentali del cittadino e stabilisce la distribuzione del potere fra i vari apparati di governo. Lo stato di diritto nacque sul finire del XVIII secolo dal superamento di quello assoluto e si perfezionò in seguito grazie al contributo del pensiero liberale e democratico.

RELIGIONE, GUERRE DI

(1562-1598). Prolungato conflitto civile tra cattolici e calvinisti francesi per motivi politici, economici e religiosi. Gli scontri furono scatenati dai cattolici, insoddisfatti della politica oscillante della reggente Caterina de' Medici verso gli ugonotti, guidati dal principe di Condé e successivamente da de Coligny. Dopo una prima fase, il conflitto riprese nel 1567 e la regina si decise a trattare: con la pace di Saint-Germain (1570) gli ugonotti ottennero quattro piazzeforti e de Coligny entrò nel consiglio della corona. Fu poi però la stessa Caterina, contraria alla sua politica antispagnola, a ispirare l'omicidio di de Coligny e il massacro degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo (1572). In conseguenza di ciò la guerra civile riesplose con maggiore violenza. Nasceva intanto la lega cattolica capeggiata dal duca Enrico di Guisa che limitò fortemente l'autonomia del nuovo re Enrico III (1574), giudicato troppo arrendevole. Nel 1585 ci fu un'ultima recrudescenza degli scontri. Il re eliminò a tradimento i Guisa e cercò l'appoggio ugonotto, designando Enrico di Borbone suo successore. Questi, salito al trono con il nome di Enrico IV, nel 1593 abiurò il protestantesimo e, con l'editto di Nantes (1598), regolò la convivenza delle due confessioni.

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